Sabato 25 novembre sarà la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, giornata istituita dalle Nazioni Unite nel 1999 in memoria delle sorelle Mirabal, tre attiviste politiche uccise nel 1960 perché si opponevano alla dittatura del regime di Rafael Leónidas Trujillo a Santo Domingo. Mai come in questi giorni questa ricorrenza si sente più vicina. Giulia è la 105 vittima di femminicidio in questo 2023. Ma c’è davvero bisogno di istituire una giornata per ricordare a tutti che la violenza contro le donne non dovrebbe esistere? Forse si…
Ancora oggi le donne devono difendersi, da chi si mostra più forte, da chi vuole possederle e non accetta che vedano altre persone o che escano a divertirsi con le amiche, da chi mette in dubbio le loro capacità di fare carriera, da chi pensa che una volta diventate madri non siano più in grado di lavorare, da chi non le ritiene abbastanza forti e in grado di difendersi da sole, da chi non si assume la responsabilità dei propri gesti e delle proprie parole e le accusa “di essersela cercata”. È così che la violenza entra, forse, nelle vite di tutti, una violenza che è anche più subdola di quella che viene agita con la forza fisica e l’uccisione, perché se non si vede non vuole dire che non ferisca allo stesso modo se non di più. Mi viene naturale estendere questo discorso al tema del rispetto, quel sentimento che porta a riconoscere i diritti, il decoro, la personalità, la dignità di ciascuno e astenersi da ogni manifestazione che possa offenderli (traduzione dal vocabolario Treccani). E allora forse è proprio il rispetto che manca al giorno d’oggi: il rispetto di essere chi si vuole, di vestirsi come si vuole, di dire di no, di soffrire e di essere felice, di potersi sentire amati, di non essere traditi, di essere liberi, di poter lavorare senza dover per forza dimostrare di essere capaci, di potersi assentare per qualche mese e non per forza rimanere indietro.
La vita di Giulia, e di tutte le altre donne che hanno subito violenze fisiche o psicologiche, è finita perché è mancato tutto questo, non sono state rispettate le sue scelte, il suo diritto a dire di no e a sentirsi amata. Amare non significa possedere, se ami davvero qualcuno lo lasci libero di andare quando vuole, accettando anche di soffrire trovandosi di fronte a un rifiuto.
Leggendo un articolo di Sandra Sassaroli pubblicato qualche giorno fa su State of Mind rimango colpita dalla riflessione su chi sono questi uomini che uccidono le donne, e sono tutti accomunati dall’incapacità di accettare il dolore straziante derivante dal rifiuto; si sentono non amati, rifiutati e l’unico modo che trovano per non sentire questo dolore è eliminarne la causa. Ma succede che poi la sofferenza arriva lo stesso, perché non si può scappare per sempre. E allora forse il problema sta proprio in questo, nel non saper accettare la sofferenza, perché se piangi sei debole e devi rialzarti subito, se non ottieni un buon risultato sul lavoro o un bel voto a scuola allora non sei perfetto. Rispondere con rabbia e violenza al dolore non fa altro che portare altro dolore, perché invece che affrontarlo per superarlo ne creiamo di nuovo a noi stessi e alle altre persone.
“Lavoriamo senza stancarci affinché il NO a una relazione sia percepito come un diritto, anche se doloroso, da accettare. Tutte le donne devono poter guardare al futuro senza più paura”.
Leave a reply